mercoledì 19 marzo 2014

PROVINCE. LA VERA STORIA DELLA LORO ABOLIZIONE



 Novecento milioni di tre anni. Questo il risparmio della riforma preludio all’abolizione delle province. Lo annuncia il commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli. Un decimo dei 9 milioni, sempre in tre anni, che secondo Cottarelli comporterebbe la riorganizzazione nella pubblica amministrazione. Prefetture e altre strutture statali produrranno risparmi superiori (1,1 mld). Allora perché da tre anni ci si accanisce contro le province?
Per distogliere l’attenzione dall’altro grande centro di spreco, oltre lo stato, le regioni. Le regioni sono nate nel 1970. Frutto della guerra fredda fra occidente e comunismo e del patto consociativo fra DC e PCI. Gli accordi di Yalta impedivano, di fatto, al PCI di andare al governo, anche se avesse vinto le elezioni. I due grandi partiti, di allora, si accordarono per dare alla sinistra la possibilità di governare su un’ampia zona dell’Italia: Emilia Romagna, Umbria e Marche. Oggi il patto consociativo fra centro destra e centro sinistra le vuole perché sono la maggior fonte incontrollata di ruberie. Appena la magistratura ha indagato un po’, dal Batman a Scialfa, ha scoperto di tutto.

Nella storia d’Italia le regioni non esistono. Salvo poche eccezioni: la Liguria con la repubblica di Genova, il granducato di Toscana e la Sardegna che sino al 1720 ha fatto storia a sé. Il dominio di Milano non ha mai coinciso con la Lombardia geografia. Il Piemonte prima era con la Savoia, poi con Sardegna e Liguria. La repubblica di Venezia comprendeva tre attuali regioni più Istria e Dalmazia. Papato e Borboni hanno dominato sul resto dell’Italia. Molte sono invenzioni geopolitiche: fra Piacenza e Rimini c’è un mondo, Matera che c’entra con Potenza? Se le Marche e gli Abruzzi hanno un nome plurale un motivo ci sarà! Esistono, invece, da sempre i comuni e le provincie dalla riforma napoleonica dell’inizio del XIX secolo.
Le regioni complicano la vita con 20.000 leggi in vigore sulle 43.000 emanate. Numero che non tiene conto di Sardegna, Sicilia e Bolzano, di cui non c’è neppure un censimento. Se per un cittadino sono un migliaio, per un’azienda che operi su tutto il territorio nazionale questo comporta una conoscenza più che enciclopedica, dai costi insostenibili. Leggi che sono quasi sempre in contrasto con quelle nazionali. Tanto è vero che un terzo del contenzioso alla corte costituzionale riguarda le liti fra regioni e stato.
Rappresentano il 20% (inclusa la sanità) della spesa pubblica, che per il 60% (compresa la previdenza) è in capo allo stato e alle sue amministrazioni. Le provincie incidono solo per l’1,7%. Dal 2010 al 2013, le province hanno ridotto dell’11,8% la spesa corrente, mentre comuni (+5%) e regioni (+1,14%) hanno continuato a spendere di più. I 2.000 miliardi di debito pubblico sono colpa delle province per lo 0,4%. A fronte di 10,2 miliardi spesi per servizi essenziali, la politica provinciale è costata 78 milioni. Troppi, ma un’inezia e comunque molto meno dei 300 milioni di risparmio che, secondo Cottarelli e Renzi, arriveranno dalle auto blu.
Il personale costa 2 miliardi all’anno. In media meno di 30.000 euro pro capite. A parità, nella regioni, lo stesso dipendente riceve 37.500 euro (Sicilia e Bolzano esclusi!). In ogni caso, si parla di mobilità e non di licenziamenti per cui dove sta il risparmio? Se lo zucchero che non metto nel caffè lo uso per il cappuccino cosa cambia per le mie tasche?
Per abolirle bisogna riformare il titolo V della costituzione. Dal 2001 l’art. 114 afferma: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Nel 1947 invece diceva: “La Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni”. Maiuscole a parte, che rigurgitano fascismo con sommo spregio dell’ortografia, significa il completo ribaltamento del testo originario. Nel 1947 lo stato era identificato con la repubblica, la ripartizione era meramente amministrativa. Nel 2001 la repubblica assurge al ruolo di nazione che è costituita in modo paritario, partendo dal basso, dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo stato.
È evidente che nessun livello istituzionale può prevaricare gli altri. Neppure lo stato. Solo il parlamento, nel suo ruolo di revisore costituzionale con procedura fortemente aggravata come previsto dall’art. 138, può intervenire sulla materia.

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