sabato 29 marzo 2014

WWF. UN LAMPO DI BUIO PER ACCENDERE LA SENSIBILITÀ VERSO LA TERRA


A Roma, alle 20,30 si spegnerà la facciata e la cupola di San Pietro! A Napoli resteranno al buio il maschio angioino e piazza Plebiscito. A Bologna il palazzo comunale in piazza Maggiore. A Genova non ci saranno le illuminazioni esterne dell’Acquario. A Milano, buio pesto al castello sforzesco e al Pirellone. A Venezia niente luci a Piazza San Marco. In Sicilia le tenebre avvolgeranno la Valle dei Templi.
Un black-out nazionale? Un attentato terroristico? Ma no! È l’ottava edizione dell’Ora della Terra, che vedrà spegnersi simbolicamente le luci per un’ora in ogni angolo del pianeta. Dalle isole Samoa (hanno cominciato alle 8.30 del mattino in Italia) e dopo il giro del pianeta, sino a Tahiti, 23 ore dopo. L’Ora della Terra, che l’anno scorso ha visto partecipare oltre 2 miliardi di persone in 7.000 città e 154 Paesi del mondo, è il più potente strumento mai creato per coinvolgere il mondo intero, a tutti i livelli della società, nel cambiamento di cui la vita sul pianeta e il nostro futuro hanno bisogno.
Centinaia gli eventi e le iniziative speciali sul web e nelle migliaia di città coinvolte in tutto il mondo. Vi saranno gli spegnimenti di simboli come: l’Empire State Building, il Tower Bridge, il castello di Edimburgo, la Porta di Brandeburgo, la Torre Eiffel, il Cremlino e la Piazza Rossa, il Ponte sul Bosforo, il Burj Khalifa il grattacielo più alto del mondo.
Tutti possono aderire spegnendo per un’ora la luce a casa, in ufficio, nei musei e segnalando la propria partecipazione sul sito dell’evento www.wwf.it/oradellaterra e postando le foto sulla pagina Facebook di WWF Italia, con l’indicazione del luogo.
Il cambiamento climatico evolve molto rapidamente e gli impatti sono sempre più seri e preoccupanti. Nel frattempo le azioni dei governi a livello nazionale e globale sono troppo lente e poco incisive, non al passo con un rischio che mette a repentaglio la natura e la civiltà umana” parola di WWF. Anche senza essere catastrofisti gli effetti dell’inquinamento e dei gas serra che ammorbano l’aria delle grandi città sono sotto gli occhi di tutti.
Ognuno di noi è parte del problema e allo stesso tempo della soluzione, a partire dalla riduzione delle emissioni di gas serra nelle abitudini quotidiane, fino allo stimolo verso i governi. Perché adottino politiche energetiche a favore delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica. Ridurre le emissioni di gas serra responsabili del cambiamento climatico significa anche intervenire sui nostri consumi di energia.

venerdì 28 marzo 2014

WELFARE. UN NUOVO RACKET ATTENTA ALLA SANITÀ PUBBLICA


Un danno complessivo per il già disastrato servizio sanitario nazionale da 18,7 milioni di euro. La causa? I furti di farmaci, soprattutto negli ospedali. Sono 68 i casi apparsi sui media dal 2006 al 2013, ma 51 si sono verificati l’anno scorso. Lo dice uno studio realizzato da Transcrime, il centro inter universitario di ricerca sulla criminalità transnazionale dell’università cattolica di Milano e dell’università di Trento. Il fenomeno si sta espandendo in modo esponenziale. Negli ultimi sette anni un ospedale italiano su dieci ha registrato un furto di farmaci, con una perdita media di 330.000 euro.
I tre autori della ricerca, Michele Riccardi, Marco Dugato e Marcello Polizzotti, hanno analizzato questo fenomeno criminale, tanto emergente quanto sconosciuto e sottostimato. Siamo ormai abituati ai furti di rame o per stare sui farmaci alla contraffazione o al cartello per tenerne alti artificiosamente i prezzi. Ma questa è una nuova botta per i cittadini, consumatori, pazienti e contribuenti 
Un fenomeno più concentrato nelle regioni con alti livelli di criminalità organizzata. La Campania e la Puglia rappresentano il 45% dei casi (con rispettivamente 17 - di cui 5 al Federico II di Napoli - e 14 furti), seguite dal Molise, dove si registrano addirittura 7 furti ogni 10 ospedali. I nosocomi più grandi, sopra gli 800 posti letto e con oltre 20 specialità, hanno registrato il maggior numero di furti. I farmaci che vanno più a ruba, sono quelli più costosi: gli antitumorali, gli immunosoppressori, gli antireumatici, i farmaci biologici.
Considerato che si tratta per la maggior parte di medicinali di classe H, interamente rimborsati dallo stato, è possibile che finiscano sul mercato illegale a livello nazionale oppure, più facilmente, all’estero. Nei paesi dell’est, che hanno un sistema sanitario più carente. Oppure in Nord Europa, dove sono più alti i margini di profitto.
L’analisi, la prima mai condotta sul fenomeno a livello europeo, fornisce l’immagine di un fenomeno criminale in rapida espansione, ma spesso ignorato. Così come sottostimati rischiano di essere i danni per pazienti, case farmaceutiche e sistema sanitario nazionale. L’alta profittabilità e i rischi relativamente bassi potrebbero convincere alcuni gruppi criminali ad abbandonare attività illecite più rischiose per dedicarsi a questo nuovo, e più lucroso, mercato illegale.
 

giovedì 27 marzo 2014

PROVINCE. LE BUGIE DI RENZO PINOCCHIO


Adesso è riordino. Domai potrebbe essere abrogazione. Le province dopo il voto del senato sono in coma. Non morte, così per ora costano come prima. E anche quando fossero cancellate, costeranno di più al contribuente.
Perché? Come hanno già spiegato tutti, dalla corte dei conti alla Bocconi, gli oltre 10,2 miliardi spesi per erogare servizi (trasporto locale, formazione professionale, viabilità, tutela ambientale, edilizia scolastica etc) saranno a carico di altre amministrazioni. Le province in questi anni sono state - dati alla mano - gli enti più risparmiosi. Dal 2010 al 2013, hanno ridotto dell’11,8% la spesa corrente, mentre comuni (+5%) e regioni (+1,14%) hanno continuato a spendere di più o lo faranno ancora. Costerà di più pure il personale.
Perché? I dipendenti sono quasi tutti a tempo indeterminato. Resteranno a carico delle future città metropolitane o passeranno ai comuni dove guadagneranno lo stesso, mentre i fortunati che andranno alle regioni costeranno al contribuente, a regime, il 22,5% in più.
Allora dove stanno i vantaggi? Solo propagandistici per il Pd di Renzi che può cavalcare la leggenda metropolitana del taglio delle province. “Avremmo un paese più semplice” ha detto il sottosegretario Del Rio. Lo dirà lui ai due terzi degli italiani, residenti fuori dalle metropoli, che per fare la stessa pratica dovranno percorrere decine di chilometri in più?
3000 politici smetteranno di ricevere una indennità dagli italiani. La volta buona”. Ha twittato Renzi, che però dimentica – come gli fanno notare il capogruppo M5S Maurizio Santangelo e il popolare Salvatore Di Maggio - l’esercito di 31.000 nuovi consiglieri e assessori comunali che ha creato con la stessa legge. L’on. Simona Bonafè, a Ballarò, ha addirittura quantificato in 600 milioni il risparmio. Fatta salva la buona fede della Bonafè, allora si tratta di ignoranza istituzionale grave. A pieno regime i costi politici delle province sommavano a 78 milioni di euro. Sempre troppi. Ma bastava ridurre il numero degli assessori a 4, nelle città metropolitane e a 2 nelle province, che si sarebbero risparmiati di botto almeno 25 milioni.
Sapete quanto costano i primi 10 top manager allo stato?
L’amministratore delegato di Saipem, Pietro Franco Tali, 6,94 milioni, l'ad di Eni Paolo Scaroni 6,77 milioni, Fulvio Conti dell'Enel con 3,97 milioni. Seguono Alessandro Pansa dg di Finmecanica 2,2 milioni, Moretti e il suo omologo di Anas, Piero Ciucci, 874.000 e 750.000 euro. Attilio Befera, gran capo di Equitalia e dell’Agenzia delle entrate, autodichiarava al fisco 772.335 euro. Il dg della RAI, Luigi Gubitosi, 650.000. Alessandro Pansa, solo omonimo dell’altro (Polizia) 621.000 euro. Mario Canzio (Ragioneria Generale) 562.000. E vi sto risparmiando Mastrapasqua ex INPS. Siamo oltre i 24 milioni. Se volete un po’ di flolklore aggiungo che i 12 dirigenti apicali dei cappellani militari di esercito e polizia guadagnano quasi 100.000 euro a tonaca. Qua quanto risparmieranno? 
Non si risparmia neppure sui costi elettorali. Perché leggendo bene le leggi in vigore, come quella di stabilità (n.147 del 2013) a maggio non si sarebbe andati a votare per nessuna provincia. Lo dice anche il decreto ministeriale del 20/3/2014, che convoca le elezioni solo per comuni e circoscrizioni. “Di fatto non si elimina nessun ente – spiega Loredana De Petris di Sel - ma se ne aggiungono”. “Si aumenta la burocrazia e si triplicano i costi” conclude Lucio Malan di Forza Italia. .

Complimenti. La #svoltabuona? Rottamare Renzi

 

mercoledì 26 marzo 2014

IMMIGRATI. LE CARCERI SONO PIENE MA SPERDIRLI A CASA SEMBRA IMPOSSIBILE


Il 21 febbraio il parlamento ha convertito in legge il decreto svuota carceri. Sono aumentati, in teoria, i casi in cui si applica l’espulsione come alternativa in caso di pena, anche residua, non superiore ai due anni. Stiamo parlando di 21.000 stranieri detenuti in Italia. Un numero superiore ad un terzo (34,4%) di tutta la popolazione carceraria. Si può risolvere il sovraffollamento dei penitenziari italiani rimpatriando gli stranieri? Espellere i detenuti immigrati detenuti in Italia sembra sia impossibile. Secondo alcune onlus che lavorano a stretto contatto con loro ci sono 11 motivi per cui è una strada impraticabile. Alcune di queste obiezioni sono molto deboli.
1 - Pena definitiva. “Qualsiasi procedura prevede che il detenuto abbia ricevuto la condanna definitiva. Questo dimezza il numero dei candidati al rimpatrio” scrive il Redattore sociale. Meglio 10.500 in meno che nessuno. Mai sentito parlare di Lapalisse? Obiezione respinta.
2 - Perché riprendermelo? “Il più delle volte il paese di origine non ha interesse a riprendersi persone che sono un costo economico e un rischio sociale” dice Patrizio Gonnella di Antigone. E l’Italia che interesse ha? Obiezione respinta.
3 – Non c’è risparmio. “È così – sottolinea Ornella Favero di Ristretti Orizzonti - Se anche uscissero gli stranieri, i costi del sistema penitenziario non si ridurrebbero del 30%, perché le spese di gestione, strutturali e per il personale non si tagliano in proporzione. Quanto ai costi vivi cosa resta? Il vitto? Costa 3, 4 euro al giorno e viene trattenuto in busta paga ai detenuti che lavorano o fatto pagare a fine pena”. Intanto chi paga il conto sono pochissimi. Soprattutto, riducendo la popolazione carceraria italiana applicheremmo il dettato costituzionale: Le pene … devono tendere alla rieducazione del condannato. Obiezione respinta.
4 - Quale paese? È difficile identificarli: molti detenuti sono senza documenti, per cui è impossibile, procedere all’espulsione. Le regole si rispettano anche se l’iter è complicato. Obiezione respinta
5 - Progetto di vita in Italia. “Molte persone vivono qui da anni – scrive il Redattore sociale - si sono ricongiunte con la famiglia o ne hanno creata una. Spesso nel paese di provenienza non hanno più legami. L’espulsione interromperebbe bruscamente un percorso di vita, separando famiglie, e di integrazione sociale”. Il patto tacito e onesto è: io ti accetto a casa mia e ti ospito volentieri. Se non rispetti le regole ti caccio. Obiezione respinta.
6 - Fastidio sociale. “Conosciamo moltissimi casi di persone con pene anche lunghe, dovute all’accumulo di tanti piccoli reati, soprattutto piccoli furti oppure vendita di prodotti contraffatti – evidenzia Gonnella - Un ragazzo del Senegal, ad esempio, aveva accumulato 10 anni per 20 condanne di sei mesi l’una”. E allora? Se ti rubo 100 euro alla volta, per mille volte, sono o non sono 100.000 euro rubati? Obiezione respinta.
7 - Mancato consenso del detenuto. “Le deportazioni in massa non si possono fare” precisa Favero, sottolineando che l’espulsione in sostituzione del carcere deve essere consensuale. “Vorremmo un trattamento analogo per i nostri connazionali reclusi in Germania?”. L’Italia con la carcerata Baraldini, che era negli USA e non in Katanga, non si è battuta per riaverla, come per altre centinaia di casi? Obiezione respinta.
8 - Vittime o carnefici?Nel carcere minorile di Catania c’erano tre ragazzini egiziani accusati di essere scafisti – ricorda Gonnella - Avevano 16/17 anni ed erano stati accusati perché durante il viaggio avevano dato l’acqua ai migranti”. Discorso analogo per il favoreggiamento della prostituzione: “Chi è già vittima spesso si trova a dover subire anche questa accusa”. Se abbiamo giudici inetti puniamoli o perlomeno sostituiamoli. Obiezione respinta.
Altre obiezioni meritano un approfondimento. Alcune sono di ordine politico giuridico, e le cause vanno rimosse dal governo, dal parlamento, dalla magistratura. Una è morale e deve essere tenuta nel massimo conto, Ma appunto perché investe la sfera etica deve impegnare l’Italia e l’Europa verso gli stati canaglia con i propri cittadini.
9 - Trattati internazionali. In caso sia di espulsione sia di trasferimento da carcere a carcere è necessario un trattato. La Convenzione di Strasburgo del 1983 sul trasferimento delle persone condannate è stata ratificata solo da 66 nazioni, tra cui Albania, Bulgaria, Macedonia, Moldova, Romania e Serbia. Mancano tutto il nord Africa e il medio oriente. Il ministero degli esteri si deve attivare e spingere sugli stati recalcitranti. Obiezione da rimuovere.
10 - Burocrazia. Anche in presenza di accordi bilaterali, spesso si frappongono difficoltà burocratiche ad esempio la convalida della condanna. La procedura di espulsione può essere avviata solo a 24 mesi dal fine pena. A quel punto viene meno il vantaggio e il detenuto preferisce arrivare alla conclusione della pena in carcere. Preferisce? Se i burocrati non sono in grado di far applicare le regole devono andare a prendere il posto dello straniero espulso. Obiezione da rimuovere.
11 - Rischio di tortura. “Che democrazia siamo, se rimandiamo i detenuti nelle carceri del Marocco, dove le organizzazioni internazionali dicono che la tortura è sistematica?” si domanda Gonnella, che ricorda: “Abbiamo l’obbligo impostoci dalla carta dei diritti umani di Nizza a non estradare o espellere persone in paesi in cui c’è il rischio di tortura o le condizioni siano inumane e degradanti. Abbiamo già ricevuto una condannata per averlo fatto”. Questo è l’unico punto che mi pare inderogabile. Però quel paese, Marocco o altri, vanno sanzionati. Non si fa finta di niente di fronte ad accuse di questo tipo.


 

martedì 25 marzo 2014

NATURA. SULL’APPENNINO LIGURE RECORDI RAPACI


Il 19 marzo sono stati più di 1.500 bianconi transitati in poche ore ai confini meridionali del parco del Beigua, sui primi rilievi di Arenzano. Al centro dell’Appennino ligure. Un numero impressionate mai visto prima.
Il biancone ci ha sempre riservato sorprese - dice Luca Baghino l’ornitologo che da anni segue il fenomeno della migrazione dei rapaci per conto del parco del Beigua - ma un flusso di questa entità, così concentrato, è stato davvero straordinario da ogni punto di vista”. Stiamo parlando di un rapace diurno, il suo nome scientifico è Circaetus gallicus, la cui migrazione, sia nella fase pre che post-riproduttiva, è studiata da più di trent’anni sulle colline di Arenzano, nella vicina Francia, nei pressi di Nizza, sia sulle Alpi Apuane. Si tratta infatti al 99% di individui adulti, destinati ad accasarsi in buona parte in Italia per la nidificazione, la fase biologica che li tratterrà nel nostro spazio aereo fino alla metà di settembre.
La migrazione di massa del 19 marzo ha equilibrato in un certo qual modo i risultati intermedi ottenuti nella prima settimana di conteggio, che erano decisamente al di sotto dei valori medi del 2012-13” spiega Baghino.
Il monitoraggio di dodici giorni della migrazione dei rapaci diurni, condotto anche quest’anno dal 10 al 21 marzo presso Arenzano si è concluso con 2307 bianconi conteggiati in leggero calo rispetto al 2012. Un periodo di controllo breve ma intenso, incentrato sulla migrazione del biancone, come specie primaria, che nella seconda decade di marzo raggiunge il picco del proprio passaggio.
Grazie all’exploit del 19 marzo – continua l’ornitologo - i passaggi si sono portati oltre la soglia attesa dei 2000 individui che negli ultimi anni sembra costituire, nel mese di marzo, il valore di riferimento in questo monitoraggio: l’anno scorso furono infatti quasi 2600 i bianconi rilevati nello stesso periodo. I dati conseguiti e gli indici calcolati - conclude Luca Baghino - ci mostrano che la popolazione italiana è in ottima salute, con un trend positivo e un aumento dei contingenti di passo osservato da almeno dieci anni. Questo andamento positivo riflette la capacità della popolazione italiana di biancone ad occupare con successo gli habitat disponibili adatti alla riproduzione nella penisola; tuttavia, risultati di questa portata suggeriscono anche che l’apporto dei bianconi in migrazione nella zona del Beigua non italiani, cioè quelli destinati ad insediarsi oltralpe, probabilmente è maggiore di quanto ipotizzato inizialmente”.

lunedì 24 marzo 2014

RIFUGIATI. L’ITALIA SCALA LA CLASSIFICA MONDIALE DI CHI CHIEDE ASILO


Nel 2013 612.700 persone hanno chiesto asilo. È “la cifra annuale più alta rilevata dal 2001”. Lo afferma l'alto commissariato dell’ONU per i rifugiati (UNHCR). Europa, Nord America, Asia orientale e Australia sono le regioni geografiche che hanno subito la maggior pressione dei nuovi rifugiati, cresciuti del 28% rispetto al 2012.
Non è più l’Afghanistan, oggi al terzo posto - spiega l’UNHCR - il primo paese di origine dei richiedenti asilo. In cima alla classifica ci sono Siria e Russia. Tra i primi dieci paesi di origine - continua il rapporto - sei sono attualmente teatro di violenze o conflitti: Siria, Afghanistan, Eritrea, Somalia, Iraq e Pakistan”.
La sorpresa arriva dalla Russia degli oligarchi miliardari, dei turisti paperoni, dello sfarzo olimpico e dall’aggressività mostrata in Crimea. Nell'ultimo anno c’è stato un boom di profughi. Sono circa 40 mila i russi che hanno richiesto asilo. Quasi come ai tempi della rivoluzione d’Ottobre. Con una crescita del 76% rispetto alle 22.600 domande del 2012. Germania e Polonia insieme ne assorbono i due terzi e sono, con la Francia, le mete principali di chi scappa dalla Russia.
Il continente che nel 2013 ha raccolto il più elevato aumento di asylanten è l’Europa. “I 38 paesi - spiega il rapporto - hanno complessivamente ricevuto 484.600 richieste, segnando un aumento di un terzo rispetto al 2012”. Al primo posto, con il maggior numero di nuove domande di asilo, la Germania che ha ricevuto 109.600 istanze e supera così gli USA. Su questo poco invidiabile podio seguono la Francia (60.100) e la Svezia (54.300). In Turchia le domande presentate, soprattutto da parte di iracheni e afgani, sono oltre 44 mila, ma attualmente, spiega il rapporto, è anche essere il paese europeo che ospita il maggior numero di rifugiati siriani registrati: 640.889 persone, al 18 marzo di quest’anno.
L’Italia ha ricevuto 27.800 domande di asilo, contro gli 8.200 arrivi in Grecia, che qualcuno vuole mettere a confronto con l’assalto subito dalle coste italiane. Abbiamo quasi raggiunto, in questa poco invidiabile classifica, al quinto posto (sesto al mondo!) la Gran Bretagna che ha ricevuto 29.200 domande, 1.210 in più rispetto al 2012, mentre l’Italia è stata sommersa da 10.481 domande in più a confronto con l’anno precedente.
A guardare questi numeri appare chiaro come soprattutto la crisi in Siria stia interessando anche paesi e regioni del mondo lontane dal Medio Oriente - ha dichiarato António Guterrres dell’alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati - Questo fatto rende ancora più importante dare un sostegno adeguato e sostanziale ai rifugiati e alle comunità che li accolgono”.
Come si manifesti questo sostegno non viene specificato. Non lo ha mia spigato, né tanto meno chiesto, il presidente della camera Laura Boldrini, che l’UNHCR per anni ha diretto.

Il numero di richiedenti asilo, spiegano dall’UNHCR, “è sempre più elevato rispetto al numero delle persone che alla fine vengono riconosciute come rifugiati”. Le percentuali di riconoscimento tra le persone provenienti dalla Siria, dall’Eritrea, dall’Iraq, dalla Somalia e dall’Afghanistan, per esempio, variano tra il 62 e il 95%, mentre i tassi di riconoscimento tra i cittadini provenienti dalla Russia e dalla Serbia sono significativamente inferiori e si assestano rispettivamente a circa il 28 e il 5%.
A livello globale, dopo l’Europa c’è il Nord America (98.800), seconda regione per numero di richieste. La Cina comunista è il principale paese di origine dei richiedenti asilo. Gli Stati Uniti con oltre 88.000 domande, dopo molto tempo, passano al secondo posto, dopo la Germania, come paese di arrivo. In Canada dopo i recenti inasprimenti nelle politiche in materia di asilo, sono state presentate la metà delle domande rispetto al 2012: solo 10.400.
In Asia orientale e nel Pacifico, Giappone (3.300) e Corea del sud (1.600) hanno ricevuto un numero record di domande di asilo rispetto agli anni precedenti. Anche l’Australia (24.300) ha visto un aumento significativo rispetto al 2012 (15.800), al punto da raggiungere quasi i livelli toccati dall’Italia.


Il rapporto integrale può essere consultato su http://rfg.ee/uKRQv

domenica 23 marzo 2014

NATURA. IN LIGURIA I MUSTANG DELL’AVETO VIVONO COME 3.000 ANNI FA


 
Molto più vicino del West americano, senza paragoni con un viaggio in Mongolia, a pochi chilometri dalla costa ligure, l’Appennino riserva uno spettacolo naturalistico senza pari in Italia. Siamo in Val d’Aveto, al confine fra le province di Genova e Piacenza. Un branco di alcune decine di cavalli, forse quaranta, vive allo stato brado, 365 giorni all'anno senza interagire con l'uomo. Sono esemplari in gran parte di sangue bardigiano, come testimoniano la corporatura massiccia, l'indole frugale, il mantello baio, coda e criniera folte. I cavalli della Val d’Aveto vivono in perfetta comunione con la natura. Il loro comportamento brado è assimilabile a quello dei mustang americani e dei cavalli della Mongolia interna.
Per incrementare l'interesse nei loro confronti e del territorio in cui vivono, nel 2012, è nato Progetto horsewatching, con il patrocinio del WWF Italia e del parco dell'Aveto. Se ne occupa “Un cavallo per amico” onlus che propone escursioni a piedi, di una giornata, condotte da esperti naturalistico-ambientali e del comportamento equino.
Come avviarsi sulle tracce dei cavalli selvaggi in questo territorio di grande bellezza? “Un'opportunità c’è – spiega Paola Marinari vicepresidente dell’associazione - per osservare e studiare il comportamento, la socialità, i cicli vitali dei cavalli in natura. Noi siamo a disposizione per fornire ogni informazione. Le nuove generazioni non hanno mai interagito con l'uomo e sono un vero patrimonio naturalistico, unico in Italia”.

Sono previste anche giornate dedicate ai più piccoli, con animatori esperti e gustose merende a base di prodotti locali. Gli appassionati di equitazione potranno fruire di escursioni a cavallo, anche di più giorni, lungo percorsi nel parco, sulle tracce dei bardigiani dell’Aveto, con accompagnatori qualificati, sia con cavalli propri che dei centri della zona.
La Val d’Aveto offre ottimi servizi ricettivi e sistemazioni più spartane. Sarà possibile trascorre piacevoli serate intorno al fuoco. I meno avventurosi si possono rivolgere al Consorzio dell'ospitalità diffusa del parco dell'Aveto, che grazie ad un tour operator locale, offre pacchetti turistici dedicati all'horsewatching e al turismo equestre in cui la buona cucina, la storia, le eccellenze naturalistiche e l'ospitalità della Valle accoglieranno gli ospiti con proposte gustose ed originali.

I cavalli dell’Aveto fanno manutenzione continua al territorio, impediscono ad erbe infestanti, come il nardo che i bovini non mangiano, di riprodursi. Mantengono un ecosistema ottimale a salvaguardia della piccola fauna selvatica. Infatti, alcuni parchi italiani hanno acquisto, grazie a progetti finanziati dall'UE, cavalli da immettere nel loro territorio con questo scopo.
Sfruttando esperienze di altri – affermano gli esperti di Un cavallo per amico – e ricorrendo a progetti finanziabili, si possono mettere a punto strategie allevatoriali, turistiche e di gestione interessanti ed utili per tutti: cavalli, allevatori, coltivatori e appassionati”.
Chi è interessato può scrivere a: uncavalloperamico@icloud.comhttps://www.facebook.com/pages/I-Cavalli-Selvaggi-dellAveto-Wild-Horse-Watching/262446640599154?ref=hl

giovedì 20 marzo 2014

SPORT. HOCKEY: IL PROFUMO D’ERBA TAGLIATA E FASCINO DEL BASTONE DI LEGNO


I suoi appassionati lo considerano il gioco di campo più antico al mondo. Le sue origini affondano nell'antichità. Documenti storici dimostrano che si diffuse in epoche più o meno contemporanee in tutti i continenti. Stiamo parlando dell’hockey su prato. Come lo hanno conosciuto gli sportivi per oltre 100 anni. Dal 1870 al 1976.
Nacque da giocatori di cricket amanti del calcio, che recuperarono le antiche tradizioni britanniche. Si sviluppò su campi di erba perfettamente rasata di 100x60 yard dove si affrontavano, senza cambi, due squadre di 11 giocatori con un portiere ciascuno, protetto da gambali e guantoni. I bastoni erano di legno con la parte terminale ricurva, che negli anni si accorciò sempre più. La pallina era simile a quella del cricket.

Una forma rudimentale di hockey fu giocata in Egitto già 4000 anni fa e in Etiopia mille anni dopo. Anche la Persia, l’attuale Iran, si candida alla primogenitura dell’hockey. In Mongolia i Daur hanno giocato per oltre mille anni, in contemporanea con l’hurling irlandese, a beikou. In Australia occidentale, non si sa da quando i Noongar giocassero a dumbung con bastoni piegati usati per colpire una palla fatta di linfa essiccata di pero. Le testimonianze più certe arrivano dall’Europa. Molti musei offrono la prova che un gioco con bastoni e pallina era praticato da greci e romani. Come in America parecchi secoli prima dello sbarco del genovese Cristoforo Colombo gli atzechi giocavano una forma di hockey. Tra l’Egitto e il Messico le piramidi non sono l’unico strano parallelismo.
La storia moderna dell’hockey nasce in Inghilterra nella metà del XVIII secolo, soprattutto nel mondo scolastico. L’anno di nascita dell’hockey è il 1870. Membri del Teddington cricket club danno vita ai primi rudimenti regolamentari, che nel 1886, assieme ad altri sei club, portano alla nascita dell’Hockey Assiociation.

Alla quarta olimpiade, nel 1908 a Londra l’hockey fa la sua prima apparizione, che bisserà la presenza nel 1920 ad Anversa e poi ancora nella nona olimpiade ad Amsterdam 1928. Da qui non uscirà più facendone con il calcio, lo sport di squadra da campo con più presenze olimpiche. Perché dal 1980 è entrato nel programma anche l’hockey femminile.
Oggi l’hockey è giocato in 127 paesi, non tutti sovrani, nei cinque continenti. Come diffusione è secondo solo al calcio, anche se non raggiunge la popolarità di baseball, rugby e cricket, che sono invece sport nazionali in molti stati. La federazione internazionale, che quest’anno festeggia i suoi 90 anni, nacque a Parigi per iniziativa del francese Paul Léautey. Fu la reazione all’esclusione dell’hockey dal programma dei giochi parigini del 1924.
Sette federazioni formarono il primo organo di governo internazionale della “Fédération Internationale de Hockey sur Gazon”. I membri fondatori furono: Austria, Belgio, Cecoslovacchia, Francia, Spagna, Svizzera e Ungheria.
Nel 1927, nacque la Federazione internazionale femminili (IFWHA) ad opera di: Australia, Danimarca, Galles, Inghilterra, Irlanda, Scozia, Stati Uniti e Sud Africa. Le due organizzazioni si sono riunite nel 1982 per formare la FIH.


L'India (1928) è stato il primo paese non europeo. Questo spiega il lungo dominio indiano ai giochi, interrotto solo a Roma 1960 dal Pakistan, sino al 1964. L’avvento del sintetico, a Montreal 1976, ha spezzato definitivamente il dominio asiatico.

Ma questa non solo è un’altra storia. È un altro sport

mercoledì 19 marzo 2014

PROVINCE. LA VERA STORIA DELLA LORO ABOLIZIONE



 Novecento milioni di tre anni. Questo il risparmio della riforma preludio all’abolizione delle province. Lo annuncia il commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli. Un decimo dei 9 milioni, sempre in tre anni, che secondo Cottarelli comporterebbe la riorganizzazione nella pubblica amministrazione. Prefetture e altre strutture statali produrranno risparmi superiori (1,1 mld). Allora perché da tre anni ci si accanisce contro le province?
Per distogliere l’attenzione dall’altro grande centro di spreco, oltre lo stato, le regioni. Le regioni sono nate nel 1970. Frutto della guerra fredda fra occidente e comunismo e del patto consociativo fra DC e PCI. Gli accordi di Yalta impedivano, di fatto, al PCI di andare al governo, anche se avesse vinto le elezioni. I due grandi partiti, di allora, si accordarono per dare alla sinistra la possibilità di governare su un’ampia zona dell’Italia: Emilia Romagna, Umbria e Marche. Oggi il patto consociativo fra centro destra e centro sinistra le vuole perché sono la maggior fonte incontrollata di ruberie. Appena la magistratura ha indagato un po’, dal Batman a Scialfa, ha scoperto di tutto.

Nella storia d’Italia le regioni non esistono. Salvo poche eccezioni: la Liguria con la repubblica di Genova, il granducato di Toscana e la Sardegna che sino al 1720 ha fatto storia a sé. Il dominio di Milano non ha mai coinciso con la Lombardia geografia. Il Piemonte prima era con la Savoia, poi con Sardegna e Liguria. La repubblica di Venezia comprendeva tre attuali regioni più Istria e Dalmazia. Papato e Borboni hanno dominato sul resto dell’Italia. Molte sono invenzioni geopolitiche: fra Piacenza e Rimini c’è un mondo, Matera che c’entra con Potenza? Se le Marche e gli Abruzzi hanno un nome plurale un motivo ci sarà! Esistono, invece, da sempre i comuni e le provincie dalla riforma napoleonica dell’inizio del XIX secolo.
Le regioni complicano la vita con 20.000 leggi in vigore sulle 43.000 emanate. Numero che non tiene conto di Sardegna, Sicilia e Bolzano, di cui non c’è neppure un censimento. Se per un cittadino sono un migliaio, per un’azienda che operi su tutto il territorio nazionale questo comporta una conoscenza più che enciclopedica, dai costi insostenibili. Leggi che sono quasi sempre in contrasto con quelle nazionali. Tanto è vero che un terzo del contenzioso alla corte costituzionale riguarda le liti fra regioni e stato.
Rappresentano il 20% (inclusa la sanità) della spesa pubblica, che per il 60% (compresa la previdenza) è in capo allo stato e alle sue amministrazioni. Le provincie incidono solo per l’1,7%. Dal 2010 al 2013, le province hanno ridotto dell’11,8% la spesa corrente, mentre comuni (+5%) e regioni (+1,14%) hanno continuato a spendere di più. I 2.000 miliardi di debito pubblico sono colpa delle province per lo 0,4%. A fronte di 10,2 miliardi spesi per servizi essenziali, la politica provinciale è costata 78 milioni. Troppi, ma un’inezia e comunque molto meno dei 300 milioni di risparmio che, secondo Cottarelli e Renzi, arriveranno dalle auto blu.
Il personale costa 2 miliardi all’anno. In media meno di 30.000 euro pro capite. A parità, nella regioni, lo stesso dipendente riceve 37.500 euro (Sicilia e Bolzano esclusi!). In ogni caso, si parla di mobilità e non di licenziamenti per cui dove sta il risparmio? Se lo zucchero che non metto nel caffè lo uso per il cappuccino cosa cambia per le mie tasche?
Per abolirle bisogna riformare il titolo V della costituzione. Dal 2001 l’art. 114 afferma: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Nel 1947 invece diceva: “La Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni”. Maiuscole a parte, che rigurgitano fascismo con sommo spregio dell’ortografia, significa il completo ribaltamento del testo originario. Nel 1947 lo stato era identificato con la repubblica, la ripartizione era meramente amministrativa. Nel 2001 la repubblica assurge al ruolo di nazione che è costituita in modo paritario, partendo dal basso, dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo stato.
È evidente che nessun livello istituzionale può prevaricare gli altri. Neppure lo stato. Solo il parlamento, nel suo ruolo di revisore costituzionale con procedura fortemente aggravata come previsto dall’art. 138, può intervenire sulla materia.

martedì 18 marzo 2014

INFORMAZIONE. LA SPECTRE SECONDO NOAM CHOMSKY, IDOLO RADICAL-CHIC


Distrarre, creare falsi problemi, graduare l’inaccettabile, differire, banalizzare, emotivizzare, tecnicizzare, favorire l’ignoranza, colpevolizzare, celare la conoscenza. Noam Chomsky il discusso linguista americano icona dei complottisti nel 2012 ha steso il suo decalogo della disinformazione. La sua abilità a rendere credibile l’apparente non deve mettere in secondo piano la sua capacità di osservazione e analisi della mass-media communication.
Il New York Times lo definisce “probabilmente oggi il più grande intellettuale vivente”. L’organo più famoso del sistema editoriale americano dovrebbe guardare con sospetto chi vede nei più grandi mezzi di comunicazione la longa manus dei grandi potentati economico-finanziari, interessati a filtrare solo determinati messaggi. Fa fico parteggiare per i radical-chic, finto-maledetti.
Sostenitore di Hugo Chavez, come di Sinistra Critica di Franco Turigliatto in Italia. Chomsky accredita, se non proprio la teoria del grande fratello, l’idea di una Spectre dell’informazione. Che attraverso le dieci regole, da lui codificate, mistifica la realtà. Forse per il NYT bisogna essere obbligatoriamente ebrei americani di origine russa per essere considerati intellettuali. Chi, italiano, legga a fronte l’Unità e il Secolo d’Italia, Il Giornale e Il Fatto Quotidiano, La Repubblica e il Foglio, ha subito la prova che non esiste un’informazione eteroguidata. Banalmente lo stesso rigore in Juventus – Roma commentato da Tuttosport, piuttosto che dal Corriere dello Sport è giudicato in modo opposto. Senza contare la quantità di siti che possono dare versioni diametralmente opposte su ogni argomento.
Semmai, ma Chomsky come tutti i complottisti evitano di fornire numeri e analisi sociali imparziali, sarebbe utile sapere quanti siano nel mondo – nazione per nazione – gli individui soggetti ad una simile manipolazione. La storia ci dice, che morto Hitler, dell’impero mediatico di Gobbels non rimase nulla. Come, dissolto l’impero del male della propaganda sovietica orchestrata da Tass, Pravda, Izvetsia, Komsomolskaya Pravda e cinema realista non è sopravvissuto nulla e la Russia si è avviata al consumismo più sfrenato
Però le strategie evidenziate da Chmosky non sono solo aria fritta e meritano di essere conosciute. Per meglio difendersi da un’informazione, che nelle grandi testate e nei circuiti tv tende ad omogeneizzarsi. Il fenomeno risponde più ad esigenze produttive di routinizzazione che non a una regia occulta.
1-La strategia della distrazione - L’elemento primordiale del controllo sociale è la strategia della distrazione. Devia l’attenzione del pubblico dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche, con il diluvio di continue informazioni insignificanti. Per impedire al pubblico di interessarsi alle conoscenze essenziali, nell’area della scienza, l’economia, la psicologia, la neurobiologia e la cibernetica.
2- Creare problemi e poi offrire le soluzioni - Si crea un problema per causare una reazione del pubblico, con lo scopo di indurlo a simpatizzare per le misure che si desiderano far accettare. Gli esempi di Chomsky sono: dare spazio alla violenza urbana, o organizzare attentati sanguinosi, perché sia il pubblico a richiede le leggi sulla sicurezza a discapito della libertà. O creare una crisi economica per far accettare come male necessario la retrocessione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.
3- La strategia della gradualità - Fa accettare una misura inaccettabile, applicandola gradualmente. È in questo modo che, per Chomsky, il neoliberismo si impose negli anni ‘80 e ‘90: privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione in massa, salari bassi. Cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero stati applicati in una sola volta.
4- La strategia del differire - Per far accettare una decisione impopolare occorre prima presentarla come dolorosa e necessaria. È più facile accogliere un sacrificio futuro che uno immediato. Perché il pubblico spera ingenuamente che, dice Chomsky, “tutto andrà meglio domani” e che il sacrificio richiesto potrà essere evitato. Questo dà più tempo alla massa di abituarsi all’idea e accettarlo rassegnata quando arriverà.
5- Rivolgersi al pubblico come ai bambini - La pubblicità diretta al grande pubblico, usa discorsi, argomenti, personaggi infantili, come se lo spettatore fosse un bimbo o un deficiente. Perché? “Se qualcuno si rivolge ad una persona come se avesse 12 anni o meno, allora, in base alla suggestionabilità, lei tenderà, con certa probabilità, ad una risposta o reazione anche sprovvista di senso critico come quella di una persona di 12 anni o meno”. (Chomsky: “Armi silenziosi per guerre tranquille”).
6- Usare l’aspetto emotivo molto più della riflessione - Sfruttate l’emozione è una tecnica classica per provocare un corto circuito su un’analisi razionale e, infine, nel senso critico dell’individuo.
7- Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità – Chomsky: “La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza dell’ignoranza che pianifica tra le classi inferiori e le classi superiori sia, e rimanga, impossibile da colmare dalle classi inferiori”.
8- Stimolare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità - Spingere il pubblico a ritenere che sia di moda essere stupidi, volgari e ignoranti.
9- Rafforzare l’auto-colpevolezza - L’individuo deve credere di essere il colpevole della sua disgrazia, a causa della sue insufficienti capacità o dei suoi sforzi. Così, non si ribella al sistema economico, si autosvaluta e s’incolpa. “E senza azione non c’è rivoluzione!”. Ancora parola di Chomsky
10- Conoscere gli individui meglio di quanto loro stessi si conoscano - I progressi della scienza hanno generato un divario crescente tra le conoscenze del pubblico e quelle delle élites dominanti. Grazie alla biologia, la neurobiologia, e la psicologia applicata, il sistema ha goduto di una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia nella sua forma fisica che psichica. Il sistema è riuscito a conoscere meglio l’individuo comune di quanto egli stesso si conosca. Questo significa che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un controllo maggiore ed un gran potere sugli individui, maggiore di quello che lo stesso individuo esercita su sé stesso.
Sembra il pensiero di una scriba ribelle all’epoca dei sacerdoti d’Egitto. Nulla di nuovo. Un elenco utile per leggere oltre e dietro la notizia. Questo è Naom Chomsky. Piace così.


http://www.disinformazione.it/strategie_manipolazione_media.htm

lunedì 17 marzo 2014

LA BALLA DELLA COSTITUZIONE PIÙ BELLA DEL MONDO


 
Per decenni ci siamo sorbito il ritornello, suonato dai tromboni della politica, di quanto fosse armonica la costituzione nata dopo la guerra, il referendum istituzionale e l’avvento della repubblica. Ci abbiamo creduto tutti. Il coro era unanime, più forte del “Gloria! Gloria! Gloria!” verdiano.
I partiti dell’arco costituzionale - che oggi non esistono più - le cui spoglie riposano tutte nell’attuale partito democratico, ne hanno il loro inno. Anche Forza Italia, che ha imbarcato molti profughi dalla ex Dc e dall’ex Psi, lo sostiene. Persino il M5S, che per sua fortuna non ha nulla a che spartite con simili compagni di strada, si erge, spesso, a difesa della costituzione più bella del mondo.
La nostra costituzione è di sicuro giovane. Ha solo 66 anni. Niente rispetto ai 227 di quella americana o, tanto per stare a casa nostra, degli oltre 400 delle Leges statutae di San Marino.
Eppure questa giovinetta, zitta zitta, si è già sottoposta ad una serie di trattamenti di chirurgia estetica. Il primo a soli 15 anni. Non solo labbra, naso e contorno occhi, ma addirittura pezzi interi come il titolo V, che peraltro è venuto così male, che adesso Renzi lo vuole riformare con una nuova plastica rigenerativa totale.
Cattiverie? No, sono i numeri a dirlo. Quelli che non vi danno mai. Solo parole, slogan e spesso sciocchezze.
La costituzione americana negli ultimi 100 anni – dal 1913 ad oggi – ha subito solo dodici emendamenti, di cui uno ne ha abolito un altro (divieto di vendita e consumo di alcolici – Ndr).
La nostra in meno di due terzi del tempo si è vista riscrivere dalle camere la bellezza di 22 articoli (tre volte il 57, due volte 56, 96, 135 e poi 10, 26, 27, 48, 51, 60, 68, 79, 81, 88, 111, 131, 134), un titolo intero, inserire due principi e cancellare altri 5 articoli. Abrogati come dicono i giuristi. Un altro paio non sono mai stati attuati. Non erano così importanti o da 66 anni siamo governati da perditempo.
Eppure la riforma di un articolo è cosa complessa. Deve essere fatta con legge costituzionale, che richiede 4 letture a distanza di sei mesi, fra le due coppie, e un passaggio referendario se non ottiene un quorum altissimo.
Per contro, le norme transitorie, che per i costituenti dovevano avere un limite temporale – quasi sempre ignorato o prorogato – hanno vissuto molto più a lungo o restano ancora lì. Tranne quella che ha permesso il rientro in Italia degli eredi maschi di casa Savoia. Che in effetti era una bella barbarie, per uno stato democratico. Tenuto conto che la casa reale aveva cacciato il fascismo – il 25 luglio 1943 – quando i padrini dell’arco costituzionale erano per lo più acquattati a Londra o a Mosca e che il popolo italiano 18 mesi prima dall’entrata in vigore della carta, al 45,7%, li avrebbe ancora voluti sul trono. Io no. Non ero ancora nato e se avessi potuto votare, avrei votato repubblica come i miei genitori. Ma da questo a cacciarli, progenie da nascere inclusa, ce ne passa. 
La storia dice che la costituzione italiana è figlia di un momento tremendo: la fine della II guerra mondiale, con la distruzione dell’Europa come entità politica. È il frutto di un matrimonio impossibile fra cattolici, comunisti e liberali. Però ha garantito a quei partiti, e ai suoi eredi, di escludere gli altri dalla vita politica, di marginalizzarli. Ne hanno fatto una sorta di bibbia, senza crederci veramente, visti i tanti cambi che hanno apportato ai sacri versetti costituzionali.
Incredibile, che forze politiche nate dopo, come Forza Italia, Lega nord, Italia dei valori, Movimento 5 stelle – che non erano e non sono artefici di quel testo così zoppicante da meritare una ventina di revisioni - non ne abbiano mai denunciato i limiti.
http://piattaformacostituzione.camera.it/4?scheda_contenuto=7
http://leg16.camera.it/38?conoscerelacamera=28

PROVINCE. RIVOLTA DEI COMUNI CONTRO LA RIFORMA CROCETTA


Il governatore Crocetta non ha ancora finito di dire “È un voto che passa alla storia. Il testo di legge che abbiamo esitato modifica l’assetto delle istituzioni in Sicilia, rappresenta un nuovo modello di democrazia partecipata”, che partono già i primi siluri alla sua riforma epocale. Quello che gli contestano è proprio la mancanza di partecipazione. Scontati quelli di moli consiglieri dei nove consigli provinciali dell’isola. I loro legali evidenziano parti incostituzionali della norma. Sono però i sindaci, capitanati da Leoluca Orlando – primo cittadino di Palermo – ad essere i più duri con il governatore.
Riteniamo che la legge approvata per alcuni suoi aspetti costituisca un vulnus costituzionale per l’autonomia comunale. Pertanto facciamo appello agli organi di controllo e al commissario dello stato. Siamo in presenza di una legge che non prevede in nessun caso né un’intesa, né alcuna forma di confronto istituzionale, attraverso la conferenza regione-autonomie locali o l’Anci”. Orlando in conclusione è convinto che il testo di Crocetta presenti “gravi criticità”.
Intanto il governatore ha dato alimento ai sospetti che la sua sia una manovra mediatica per avere visibilità televisiva, dichiarando “telefonerò a Massimo Giletti (Rai Uno) dicendogli che abbiamo approvato all’assemblea regionale siciliana la legge Crocetta-Giletti”.
In effetti Crocetta è spesso ospite all’Arena la trasmissione di Massimo Giletti, dove racconta i suoi successi, tipo aver ridotto le auto blu da 18 a 7.
Aldilà della evidente piaggeria verso il giornaliste televisivo, resta il fatto che il commissario Aronica si trova giudicare una legge che all’articolo 1 arruola tutti i comuni, in sede di prima applicazione, ai nuovi liberi consorzi che sostituiscono le 9 province. Poi all’articolo 7, quegli stessi comuni - nelle circoscrizioni di Palermo, Catania e Messina - dove sono previste le città metropolitane faranno parte del nuovo ente. Un bel guazzabuglio. Quasi peggio di quello che Monti e Patroni Griffi fecero con il decreto omnibus poi bocciato dalla corte costituzionale per la parte che riguardava proprio la riforma delle province.

domenica 16 marzo 2014

MAFIA. LO STATO SEQUESTRA. L’AGENZIA FA FALLIRE LE AZIENDE


Zaia si era offerto di formare i quadri della regione Sicilia per ridurre gli sprechi. Apriti cielo. Ora è il capogruppo del M5S alla Camera, il cittadino Riccardo Nuti, a chiedere al leghista Maroni, tramite il ministro Alfano, di fornire ai siciliani professionisti addestrati in Lombardia e formarne altri per l’isola. Perché?
È in atto un’ecatombe. Il 96% delle imprese sottratte alla criminalità organizzata ed affidate agli amministratori giudiziari, secondo alcuni studi, fallirebbe. Con un costo sociale altissimo, soprattutto per tantissime famiglie che rimangono senza lavoro. Solo il 4 per cento delle imprese sottratte alla mafia sopravvive all’amministrazione giudiziaria. Delle 1200 gestite dall’agenzia nazionale per i beni confiscati il 40% si trova nell’isola (il 28% a Palermo). Eppure i mezzi per evitarlo ci sono. A Milano sono stati formati 63 manager privati allo scopo di affiancare gli amministratori giudiziari nella gestione di queste imprese. Ma finora questi professionisti non sono ma entrati in azione.
A chiedere i motivi di questa impasse è capogruppo pentastellato a Montecitorio, che ha presentato in merito una interrogazione al ministro dell’Interno, Alfano.
L’Italia – taglia corto Nuti – è il paese dei proclami, e nei pochi casi in cui a questi segue un fatto, un provvedimento, anche questi spesso rimangono lettera morta. È il caso dei manager formati, ma rimasti ai box, è un fulgido esempio. Secondo gli ultimi dati disponibili – prosegue il capogruppo M5S – ci sarebbero in Italia 1211 aziende amministrate dall’agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Di queste 538 sono in Sicilia. Ancora più rilevante è il dato palermitano, dove la concentrazione di imprese confiscate alla mafia è più di un quarto. È evidente come la presenza di manager esperti a fianco degli amministratori giudiziari se nel resto del paese è necessaria, in Sicilia è quasi un dovere morale, se non vogliamo continuare ad ingrossare l’ormai sterminato esercito dei disoccupati”.
La denuncia di Nuti si affianca al grido d’allarme lanciato dal centro Transcrime, una collaborazione dell'università Cattolica di Milano con l’università di Trento, secondo cui delle quasi duemila aziende confiscate alle mafie italiane, dal 1983 ad oggi, solo il 20% è ancora produttivo.

sabato 15 marzo 2014

SPIONAGGIO. IL GOVERNO OBAMA USA ANCHE FACEBOOK PER CARPIRE DATI


Glenn Greenwald - il giornalista americano, che ha scritto per The Guardian e per primo svelò le confessioni di Edward Snowden sullo spionaggio condotto dagli USA sui cittadini americani e su capi di stato stranieri come Angela Merkel - torna, con Ryan Gallagher sul sito The Intercept, all’attacco con nuovi documenti.
Dopo le rivelazioni di ottobre sugli attacchi al sistema Tor – finanziato e promosso dal governo USA (sic!) - che protegge l’anonimato degli utenti che usano questo browser modificato di Mozilla Firefox. Ora è la volta del sistema Turbine.
La National Security Agency americana (NSA) utilizzerebbe il malware Turbine, cioè un programma software malefico, per introdursi nei computer e raccogliere clandestinamente i dati telefonici e internet di milioni di computer in tutto il mondo, riducendo al minimo l'impiego di risorse umane.
Dal 2010 e con il sostegno dell'intelligence britannica GCHQ (quartier generale inglese per le comunicazioni con sede a Cheltenham), l'NSA avrebbe usato anche Facebook come canale per infettare specifici computer. Secondo Greenwald: "quando il bersaglio accede al suo profilo, l'NSA si finge server Facebook e trasmette pacchetti malware che ingannano il computer spacciando questi pacchetti come servizi Facebook. Nascondendo il malware all'interno di quello che sembra una normale pagina di Facebook, la NSA è quindi in grado di introdursi nel computer e trasferire i dati dal disco rigido".
In altri casi l'NSA avrebbe inviato email infettate da Turbine, così da poter scattare foto dalla webcam e captare l'audio attraverso il microfono, registrando così le conversazioni via Skype e altri sistemi e rivelando l'username del chiamante.
Un documento top secret del 2012, scovato da Greenwald, rivela che una volta attivato cliccando sul link delle email, il malware è in grado di inserirsi nel pc in otto secondi e può scattare foto dalla webcam e captare l’audio attraverso il microfono, registrando così le conversazioni via Skype e altri sistemi VoIP.
I documenti di Greenwald non sono ufficiali. Ma “documenti declassificati – lo scriveva l’8 giugno 2013 sul Washington Post Anne Gearan - mostrano che almeno dal 1997, la NSA è stata incaricata di sviluppare modi per attaccare le reti informatiche nemiche. Ad esempio, il virus Stuxnet - creato per danneggiare i programmi nucleari dell'Iran – fu il frutto di una collaborazione tra scienziati e tecnici della NSA e i loro omologhi di Israele”.
L’Europa che fa? I deputati dei 28 a Strasburgo hanno condannato le attività di spionaggio della National Security Agency. Nella risoluzione, approvata con 544 voti a 78, con 60 astensioni, si afferma che "…la lotta al terrorismo non può giustificare una sorveglianza di massa segreta e illegale".
L’europarlamento richiama gli USA a regole più stringenti per il trasferimento dei dati personali e sostiene che l'Europa dovrebbe sospendere l'accordo Safe Harbour - sulla riservatezza del trasferimento di dati a fini commerciali tra l'Unione e gli Stati Uniti - i cui principi "non forniscono un'adeguata protezione dei cittadini europei".

 

venerdì 14 marzo 2014

GIORNALISTI. L’ATTACCO ARRIVA DAL WEB. SONO MINACCE E INSULTI


Offese e minacce ai giornalisti, mascherate spesso da labili e pretestuose accuse, non sono un fenomeno italiano. La gogna che il blog di Grillo riserva ogni giorno ad un giornalista è solo il momento più eclatante di una campagna denigratoria e minatoria che ha risvolti mondiali.
Molta gente usa i social media per insultare e minacciare i cronisti, il fenomeno si sta allargando a macchia d’olio e in modo preoccupante. Invece i giornalisti sono i cani da guardia della democrazia e senza libera stampa non c’è libertà. Thomas Jefferson scrisse, già nel 1787: “Se dovessi scegliere fra un governo senza la libera stampa e la libera stampa senza un governo, sceglierei la stampa”. Poco dopo anche Benjamin Franklin scrisse: “La libertà della stampa deve essere assoluta. I giornali devono essere lasciati liberi di esercitare la propria funzione investigativa e di controllo con forza, vigore e senza impedimenti”.
Roy Greenslade firma del Guardian, il quotidiano di Manchester celebre per le sue inchieste, racconta una indagine condotta un gruppo di ricercatori dell’University of Central Lancashire. Il sondaggio è gestito da ricercatori indipendenti presso il del dipartimento di giornalismo dell’ateneo inglese. Spiega quanto il fenomeno sia ampio e come i giornalisti attaccati reagiscano.
I primi risultati del questionario dimostrano che il fenomeno è piuttosto ampio e che insulti e minacce producono effetti pesanti. Finora, spiega Greenslade, nel suo articolo hanno partecipato al sondaggio 87 giornalisti, la maggior parte dei quali cronisti o sportivi.
Gli insulti più diffusi - 70% del campione - sono riferiti al lavoro del giornalista o alla testata per cui lavora. Circa la metà ha ricevuto insulti personali, il 27% sono stati minacciati, con l'8% che hanno ricevuto insulti sessuali e un 6% che sono stati minacciati sessualmente.
Malgrado l'idea diffusa che nelle redazioni prevalga l’umorismo nero e i comportamenti machisti, il 75% dei giornalisti hanno dichiarato di essere rimasti a volte o spesso turbati, con il 30% molto turbati e l'11% addirittura spaventati o intimiditi. Ancora più forti le reazioni fra le giornaliste: il 95% di loro ha confessato di essere rimaste turbate a volte o spesso, il 66 % addirittura molto turbate. Quasi la metà delle giornaliste poi sono rimaste spaventate o intimidite a volte o spesso.
Le donne sono risultate più arrabbiate degli uomini, con un 50% di a volte e il 45% di spesso. La rabbia è meno comune fra i giornalisti maschi: il 43% lo erano a volte e il 30% spesso. Un 27% l’ha presa con filosofia. Materia che con il giornalismo ci azzecca poco.
"Certo, è chiaro che i giornalisti hanno spesso a che fare con gente molto emotiva - ha raccontato Amy Binns, ricercatrice ed ex giornalista dello Yorkshire Post a Greenslade - Di solito si riesce a sorridere e a lasciare dentro le mura della redazione quelle esperienze angoscianti. E questo può essere una buona maniera per affrontare le cose''
"Tuttavia questi primi risultati – continua Binns -mostrano che offese e minacce continue, che siano via Twitter o nei commenti, sono fortemente dannose. Infatti, la maggioranza ei giornalisti, il 58% ha replicato pubblicamente. Molti hanno bloccato l'utente, mentre il 15% del campione hanno cancellato il post originale”.

 

giovedì 13 marzo 2014

PROVINCE. SICILIA VOTA LA SOPPRESSIONE, SÌ, FORSE, VEDREMO

 

Da martedì, l’istituzione dei liberi consorzi comunali e delle città metropolitane di Palermo, Catania e Messina in Sicilia è legge. L’assemblea regionale ha votato a larga maggioranza (62 su 78 presenti dei 90 eletti). La legge è un coacervo di disegni e proposte (642- 31- 132- 133-149- 153- 164- 165- 183- 219- 226- 268- 474- 542- 543- 546- 613- 638- 662/A) un calderone che ha portato al voto di oltre 120 emendamenti. Ma l’abolizione di presidenti, giunte e consigli provinciali dovrà essere contenuta in un’altra legge che deve delineare ancora le prerogative dei consorzi comunali.
In Sicilia, così, potrebbero nascere quindi fino a venti nuovi consorzi tra comuni. Più del doppio rispetto alle attuali nove province. L’esempio è Ragusa dove Vittoria è tentata dalle sirene di Gela, oggi con Caltanissetta. Modica, invece, culla il sogno di diventare, in forza della sua popolazione, la capitale del libero consorzio del barocco aggregando Noto. Tre al posto di una. No male come semplificazione. Basta avere 180.000 abitanti contro i 300.000 previsti per le province. Senza parlare delle rivendicazioni di Marsala, Sciacca e via dicendo.   
L’unico vantaggio, poi da verificare sul campo, è la perdita delle cariche elettive. Restano oneri, debiti, società partecipate e dipendenti, cambia solo il nome. Senza dire che tipo di competenze debbano avere i nuovi enti di secondo livello. E soprattutto quanto debbano costare. Come nel Gattopardo cambiare tutto per non cambiare niente. Più che una rivoluzione è quindi al momento un cortocircuito legislativo. Come quello che vive da due anni la provincia di Genova.
Sempre che il commissario della stato, il prefetto Carmelo Aronica, al cui vaglio è sottoposta la legge non decida di impugnare il provvedimento pe violazione della costituzione. Lo ha già fatto con l’ultima finanziaria regionale.
È un voto che passa alla storia. Il testo di legge che abbiamo esitato modifica l’assetto delle istituzioni in Sicilia, rappresenta un nuovo modello di democrazia partecipata”. Questo il giudizio entusiastico del governatore Rosario Crocetta. Soddisfatto anche Baldo Gucciardi, capogruppo Pd: “Abbiamo incontrato più di un ostacolo, ma nonostante le difficoltà abbiamo scritto un buon testo e, con orgoglio, posso dire che i parlamentari del Pd hanno fatto un ottimo lavoro in commissione e in aula”.
Critiche dal Ncd che a Roma fiancheggia il Pd. “Quale sarà l’effettivo risparmio? - si chiede il capogruppo Nino D’Asero - Mi auguro che nella prossima legge che dovremo fare sulle province si possano migliorare incongruenze e difetti”.
Tranchant il giudizio di Nello Musumeci (FI). “Le leggi sono destinate ai popoli, invece questa legge è destinata solo alle prime pagine dei giornali. Dove sta il risparmio se tutto viene trasferito dalle province ai liberi consorzi, dal personale ai debiti? Dove sta la convenienza? Questo mostro giuridico è figlio di molti padri e da consulenti quaquaraqua del diritto. Le province sono utili ma la regione le ha fatte diventare inutili”.
Per ora restano i commissari nominati da Crocetta, ma sino al 30 giugno. La corte regionale ha dato l'ultimatum. Poi potrebbe essere il caos. Genova docet.

martedì 11 marzo 2014

LEGGE ELETTORALE. LE BUGIE SUL VOTO DI PREFERENZA


-        Gli italiani hanno diritto di esprimere il voto di preferenza.
Nel 1991, con una maggioranza del 95,6%, gli elettori bocciarono il voto multiplo di preferenza. Nel 1946, la repubblica venne scelta dal 54,3% dei votanti. Nessuno si sogna oggi di far ripetere un giudizio come quello. Non c’è motivo di cambiare regola sulle preferenze che sono state bocciate in tempi molto più recenti e da una maggioranza quasi doppia
-        Gli italiani devono poter scegliere gli eletti con il voto di preferenza.
Indicare uno o più nomi in una lista chiusa proposta dai partiti non significa “scegliere gli eletti” ma esprimere un gradimento, una preferenza appunto - che pochi anche prima utilizzavano - rispetto a scelte già compiute dalle segreterie politiche. Inoltre i partiti hanno sempre usato la tecnica dei capilista con cui “invitavano” gli elettori ad esprimersi a favore dei “più nominati fra i nominati da loro”.
-        Un parlamento di nominati non è democratico.
Il voto di preferenza, quando esisteva, vigeva solo alla camera dei deputati. Al senato, dal 1948 ad oggi, si è sempre votato per collegi con il nome del candidato, scelto o nominato fate voi, stampigliato sulla scheda su indicazione dei partiti. Nessuno ha mai detto che il senato non sia un organo democratico
-        Si è sempre votato con le preferenze.
Altra bugia. Non solo non si è mai votato con le preferenze al senato, ma neppure per i consigli provinciale. Eppure le provincie hanno funzionato democraticamente, con i consiglieri eletti per collegio, per oltre 60 anni. Anche in moltissime regioni vige il listino. Per cui una parte dei consiglieri eletti sono votati insieme al candidato governatore. Una volta votati sono consiglieri democraticamente eletti come gli altri.
-        La preferenza consente di scegliere il candidato migliore.
Non è vero neppure questo. I re delle preferenze Lauro a Napoli, Sbardella a Roma, Lattanzio a Bari, De Mita ad Avellino e così via non erano certo i migliori. Erano i più ricchi o i più corrotti. Potevano concedersi campagne elettorali faraoniche con cene luculliane, mega manifesti, santini a gogò. Promesse di lavoro, voto di scambio. Insomma il trionfo della corruzione.
-        Il deputato eletto con le preferenze è più libero di fronte al suo partito.
Sciocchezza mega galattica. I deputati non sono soggetti al vincolo di mandato. Cioè una vola eletti rispondono solo a loro stessi, se vogliono. Le prove recenti sono i dissidenti del M5Stelle, la scissione degli alfaniani, la precedete diaspora dei finiani di Futuro e Libertà. I continui cambi di gruppo, quasi un mercato delle vacche, fenomeno quasi sconosciuto nella prima repubblica. Quando si votava con le preferenze la disciplina di partito era molto più rigida.
-        La preferenza è il male assoluto?
Certo che no, ma è più spesso fonte di voto di scambio che scelta responsabile. Nell’attuale contesto sarebbe comunque un palliativo in mano ai partiti. Non a caso, oggi, sono a favore del voto di preferenza i partitini minori, che eleggerebbero non più di un deputato per circoscrizione. Anche con il voto di preferenza i candidato inseriti dal secondo all’ultimo posto in lista non avrebbero nessuna chance di prendere più preferenze del capolista scelto, cioè nominato, dalla segreteria nazionale.
Una soluzione, non certo l’unica, potrebbero essere primarie obbligatorie per legge per ogni lista che si presenti al voto. Con il conseguente inserimento dei più votati nelle liste dei rispettivi partiti in ordine casuale e indicazione di voto con preferenza singola.

ALBANIA (2). APPUNTI DI UNA VACANZA ESTIVA


Cento minuti di volo e sei in Albania. Appena il tempo di riordinare le idee e sei pronto a scoprire un mondo per certi versi lontanissimo. L’aereo della BelleAir già atterra sulla pista del modernissimo aeroporto di Tirana. Le procedure di sbarco per gli stranieri sono rapidissime, solo la carta d’identità e nessuna tassa di sbarco. In estate, la notte albanese è tiepida, accogliente, ospitale come scoprirai essere gli albanesi. Un taxi è pronto, per 20 euro, a percorrere i 26 chilometri e portarti nel centro di Tirana.
La strada è perfetta, il panorama di stampo mediterraneo simile alle altre periferie delle città del Sud Europa. Ecco, presto saprai che non tutte le strade in Albania sono come questa. L’architettura razionalista importata dal Fascismo, quando il re del regno delle Aquile era Vittorio Emanuele III, dà un impronta familiare alla capitale. È di stampo italiano l’asse centrale di Tirana (blvd Zogu I e blvd Deshmoret e Kombit), al cui centro è posizionata piazza Scanderbej, che si chiude con un sorprendente piccolo Eur dove ha sede l’università Madre Teresa, che - anche se nota come “di Calcutta” - era albanese.
Non ti sorprendere se il taxista ti apostrofa subito in italiano e ti dirà con orgoglio: “Questo lo hanno fatto gli italiani!”. L’amore per l’Italia degli albanesi nasce da molto lontano e poi si è rafforzato all’inizio degli anni ‘90 quando la Rai ha aperto loro le finestre sul mondo, che per decenni il regime comunista gli aveva nascosto. Non ti stupire quindi, se molti albanesi ti diranno che l’italiano lo hanno imparato guardando la tv, ma la maggior parte lo parla correntemente perché lavora, ha lavorato in Italia o ha da noi un parente.
Il ricordo del regime comunista di Enver Hoxha è palpabile nell’arretratezza delle infrastrutture, le ferrovie sono inesistenti, le strade spesso pessime. Ogni tanto incapperai, persino in piena Tirana, in uno strano fungo di cemento che spunta dal terreno. È uno dei 700.000 bunker anticarro costruiti tra il 1950 e il 1985 per resistere a un’improbabile invasione, non si sa bene da parte di chi.
Ora, l’invasione che l’Albania aspetta è quella dei turisti e dei businessman. L’Albania è adatta per un turismo familiare, di giovani coppie, ma anche di intraprendenti viaggiatori. Gli alberghi sono per la maggior parte nuovi o appena ristrutturati. La cucina è mediterranea, con gustosi inserti ottomani e balcanici, ricca di piatti tradizionali, ma in linea con i nostri costumi alimentari. Il pesce sulla costa e la carne nell’entroterra sono i piatti forti. Le insalate sono ricche e variegate. Pasta e pizza non mancano mai e i cuochi quasi sempre si sono formati nelle nostre pizzerie. Le insegne, quasi tutte in italiano, facilitano la ricerca. Cade così il mito della impenetrabilità della lingua sqipetara. Un idioma che solo nel 1908 ha trovato la sua attuale grafia in caratteri latini. Sino ad allora ogni albanese scriveva in base alla propria religione: gli islamici con caratteri arabi, gli ortodossi con l’alfabeto cirillico e i cattolici con le lettere latine.
Tirana non vale più di due giorni di permanenza. Una visita ai musei (archeologico, d’arte e di storia). Qualche foto ricordo nella bella moschea di Et’hem Bey o sotto l’attigua torre dell’orologio. Una passeggiata lungo il viale Deshmoret e Kombit con una sosta nel verde del Parku Rinia. Una serata nel quartiere di Blloku. Un’escursione al monte Dajti.

Da non perdere invece sono le due città ottomane di Berat e Gjirokastra. Patrimoni UNESCO dell’umanità. A Berat, tre ore di macchina - ma noleggia un Suv non una citycar! – da Tirana il tempo si è fermato. Sulla rocca l’antico forte romano, bizantino, poi ottomano ricco di chiese e con una vista mozzafiato sulla valle sovrasta il quartiere musulmano, intatto e identico a cento anni fa e, oltre il fiume, quello cristiano. A Gjirokastra, lungo la statale che porta in Grecia, la magia si ripete. Così come la disegnò Ali Pasha all’inizio del XIX secolo. Qui Ismail Kadarè ha ambientato il suo famoso romanzo “La città di pietra”. Da Gjirokastra a Saranda ci sono solo 60 km, ma prevedi almeno un’ora di viaggio. Sulla costa più bella dell’Albania, di fronte a Corfù, ti potrai concedere un po’ di relax balneare. In un clima vacanziero spensierato e internazionale, ma a prezzi da saldo di fine millennio: 3 euro per due lettini e un ombrellone! Questa e molto di più è l’Albania che ti aspetta.