giovedì 15 gennaio 2015

2014: MENO LETTORI, PIÙ LIBRI, MENO CONCORRENZA, QUALCHE NOVITÀ



 

Rispetto al 2013, la quota di chi ha letto almeno un libro è scesa dal 43% al 41,4%. Eppure, nel 2014, i 1.658 editori italiani hanno stampato 170 titoli ogni giorno, molti dei quali non sono arrivati neppure agli scaffali. La grande distribuzione è in mano a due unici soggetti: Messaggerie e PDE del gruppo Feltrinelli. Più altri due consorzi regionali. Non bastasse, l’AGCOM il 4 dicembre 2014 ha dato il via libera ad una joint venture fra i due colossi. Come faranno ora i piccoli editori ad arrivare in vetrina? E con loro le migliaia di esordienti che non trovano spazio nelle major editoriali e si affidano alle edizioni di nicchia?
Nel frattempo, a fianco, degli editori che si assumono il rischio d’impresa, sono sorti una miriade di imprenditori che più che intraprendere prendono. Cioè chiedono all’autore un contributo per sostenere le spese di stampa della sua opera. Questa nuova categoria viene chiamata nel settore EAP: editori a pagamento.
Il sito “rifugiodegliesordienti” ha censito 972 editori, di cui 162 testati, quasi tutti EAP. Attraverso un grande sondaggio fra gli autori assegna delle faccine, sorridenti o tristi, in base alle esperienze raccontate.
D’altro canto Writer’s Dream, altro sito cool nel settore, ha compilato una lista di 300 editori free, cioè che non chiedono contributi. Insomma due mappe che rappresentano realtà diverse, ma che consentono agi autori, specie agli esordienti, di districarsi nel mare incognitum o nel gurgite vasto in cui rischiano di finire come non troppo rari nantes.
Se la grande industria libraria si nega agli esordienti, la piccola e media editoria, subissata di richieste, ha tempi biblici per rispondere e comunque ha difficoltà ad imporre i nuovi autori sul mercato. Resta allora l’EAP?

Già nel 2010, Marco Polillo presidente della AIE, l’associazione degli editori che aderisce a Confindustria, diceva “L’editoria è una cosa: nel senso che l’editore fa questo mestiere rischiando del suo, perché crede nel prodotto che fa e porta al pubblico attraverso librerie e grande distribuzione i testi che edita. L’editore a pagamento in realtà è uno stampatore, non è in grado di mettere in distribuzione i libri che stampa, al massimo mette alcune copie presso librerie amiche, ma non è distribuzione quella”.
È anche vero che nel frattempo le cose sono cambiate. Ad esempio il gruppo Albatros, recensito con molte faccine allegre anche dal “rifugio” offre servizi pari, se non superiori, a molti editori free.
Ma chi non vuole pagare cosa può fare? L’ultima frontiera è il self publishing. Il prototipo del quale venne presentato vent’anni fa, nel 1995, alle cartiere dell’Acquasanta con il manifesto firmato da Gillo Dorfles, Mario Persico, Francesco Pirella ed Edoardo Sanguineti. Con l’auto pubblicazione il neofita, ma anche l’autore che decida di non cedere i diritti della sua opera può editare i suoi libri, usando una tipografia e/o il web. Il mercato si riduce, ma il ricavato del prezzo di copertina è tutto il suo. Oppure può ricorrere agli specialisti. I più affidabili nel campo sono i siti narcissus.me e lulu.com. Qui paga la capacità di promozione dell’autore: fare branding.

 


 

lunedì 5 gennaio 2015

COMUNI. CASTELMAGNO RESTA PER LA FONDUTA NON PER LA FUSIONE


Il numero dei comuni italiani è passato da 8.057 a fine 2014 a 8.047 dal primo gennaio. Erano 8.103 nel 1995. In dieci anni solo 56 in meno. Eppure abbiamo 134 comuni sotto i 150 abitanti. I 25 più piccoli, meno di 78 abitanti sono tutti a Nord Ovest. Ci sono pure Castelmagno, che anche se sparisse come comune resterebbe nel cuore e nelle tavole degli italiani per il suo formaggio dop. O Moncenisio più celebre per il passo che per il municipio.
Dal 2000, quando entrò in vigore il testo unico sugli enti locali, si sono sprecati profluvi di convegni, tavole rotonde, seminari, studi, progetti, parole che se usate per fare atti amministrativi concreti avrebbero portato i comuni ad un numero più congruo.
Il 91,4% dei comuni d’Italia è sotto i 15.000 abitanti. Soglia minima per avere un’amministrazione che si possa reggere economicamente.
In 699 comuni, di cui circa 580 non erano capoluogo di provincia, risiede la maggioranza degli italiani, pari al 52,4%. Portare i comuni a 1.500/1.800, sopprimere davvero le province e unificare le regioni in 7 aree (Subalpina, Adria, Appennino, Centro, Meridione, Sicilia e Sardegna) questa sarebbe una riforma risparmiosa e di buon senso.
Per ora siamo alle briciole. Il calo più consistente c’è stato l’anno scorso, quando erano stati istituiti 24 nuovi comuni a seguito di fusioni che ne hanno soppresso 57. Con un saldo negativo di 33 enti. Resta in forse il comune di Mappano, rinviato dal TAR Piemonte alla corte costituzionale, perché la scissione da Settimo torinese è stata considerata illegittima.
La fusione più importante è avvenuta in Emilia nella Val Samoggia, dove 5 comuni hanno dato vita al nuovo municipio, Valsamoggia, che conta quasi 30 mila abitanti. La fusione più piccola in Lucchesia dove il nuovo comune di Fabbriche di Vergemoli, mette insieme i due comuni omonimi, per un totale di 820 abitanti. Poco lontano, all’estremo nord della Garfagnana, Sillano e Giuncugnano dal primo gennaio 2015 si sono fusi, conservando il doppio nome, per un totale di 1.150 anime residenti. Alla stessa data, sette comuni sono stati soppressi per la nascita di tre nuovi in provincia di Trento e altri due che si sono uniti in provincia di Udine.
Che poi vien da ridere che continuiamo a parlare di province, quando 10 sono già sparite dando vita allo sconcio della città metropolitane e le altre sono alla canna del gas o tenute in vita artificialmente con il polmone meccanico.
Fra 2014 e inizio 2015 le regioni interessate a processi di fusione di comuni sono state: Emilia-Romagna (4), Friuli-Venezia Giulia (2), Lombardia (9), Marche (2), Toscana (8) e Veneto (1) Trentino (3).